Il collegato lavoro ha modificato anche la disciplina relativa ai alla certificazione dei rapporti di lavoro prevista, in via generale, dagli articoli 75 e seguenti del D.L.vo n. 276/2003.
Talvolta infatti può accadere di trovarsi nella necessità di ricondurre la concreta esecuzione di una data prestazione lavorativa ad una delle varie tipologie contrattuali che il nostro ordinamento riconosce e prevede (i cosiddetti contratti tipici) o che comunque la prassi ammette (contratti atipici). Tale riconduzione può risultare ardua, in quanto ad ogni singola tipologia contrattuale sono connessi effetti: civili, amministrativi, previdenziali, fiscali: effetti questi che spesso, se non addirittura sempre, variano di volta in volta.
Con la certificazione dei contratti di lavoro è stato introdotto nel 2003 nel nostro ordinamento un metodo per fornire maggiori certezze rendendo possibile ai contraenti (ma anche ai terzi) il corretto e puntuale inquadramento dell’alveo civile, amministrativo, previdenziale e fiscale nel quale essi dovranno muoversi una volta iniziato il rapporto lavorativo.
E ciò con scopo evidentemente deflattivo.
Per tale motivo, nella qualificazione del contratto e nell’interpretazione delle clausole, il giudice non potrà discostarsi dalla valutazione delle parti espressa in sede di certificazione, fatto salvo il caso della erronea qualificazione del contratto, del vizio del consenso o della difformità tra quanto prima certificato e quello effettivamente attuato dopo.
I contratti certificati pertanto non sono altro che dei contratti certificati da apposite Commissioni di certificazione e precisamente da:
a) gli Enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento;
b) le Direzioni provinciali del Lavoro;
c) le Province;
d) le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie;
e) la Direzione Generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro del Ministero del Lavoro;
f) i Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.
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