Lo Studio Legale Nappo nasce con l’obiettivo di offrire alla Clientela assistenza e consulenza con particolare attenzione alle questioni riguardanti il diritto commerciale e societario, il diritto tributario, il diritto informatico, la contrattualistica, la protezione dei dati, i marchi e brevetti, nonché in ambito di diritto del lavoro e previdenziale, offrendo al cliente strumenti validi e continuità del servizio, serietà, competenza, preparazione e celerità d'azione per rispondere in tempo reale alle problematiche sottoposte.
L’attività professionale offerta è sia di carattere stragiudiziale, sia di carattere giudiziale avanti a tutte le Magistrature. Attualmente l'Avv. Milena Nappo è DPO Certificato e Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, è inserito nell'elenco dei legali esterni di ANAS Emilia Romagna e del Comune di Terre del Reno, è consigliere del Gruppo Professioni CNA di Ferrara e membro del CID CNA Impresa Donna Ferrara, è consulente per ASPPI Ferrara - Poggio Renatico, e fa parte della prestigiosa associazione Fidapa BPW Italy.
“Nell'ipotesi di immobili non comodamente divisibili l'attribuzione dell'intero immobile in comproprietà ai coniugi, contitolari in regime patrimoniale di comunione legale dei beni della quota maggiore, non è in contrasto con il principio del favor divisionis
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al quale è informato l'art. 720 c.c., tenuto conto della considerazione unitaria del diritto dei coniugi i quali - a stregua della disciplina prevista dall'art. 159 c.c. e ss., - non sono titolari di un diritto di quota di cui possano disporre - come avviene nella comunione ordinaria - ma sono solidalmente titolari di un diritto sui beni comuni di cui ciascuno dei coniugi può disporre senza il consenso dell'altro”.
Così si è espressa la Suprema Corte di Cassazione che, con l'ordinanza 25 ottobre 2011 n. 22082 si è pronunciata in merito alla compatibilità tra la comunione legale tra i
coniugi e la non divisibilità di un immobile detenuto in proprietà
con altri soggetti.
La Corte ha infatti ribadito che anche in presenza di contitolarità con dei terzi ciascun coniuge può disporre dell’intero bene comune con
il consenso dell’altro, consenso che si porrebbe come negozio unilaterale autorizzativo
volto a rimuovere un limite all’esercizio del potere dispositivo in
capo all’altro coniuge.
Nella
relazione depositata ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., si legge
quanto segue: "1. B.A. e A.M.G., premesso di essere
comproprietari in ragione del 50% di un immobile che per la restante
parte era in comproprietà di Z. P.C.L., Z.C. e Z.L., convenivano in
giudizio le predette dinanzi al tribunale di Pisa per sentire
dichiarare lo scioglimento della comunione con attribuzione
dell'intero immobile ad essi attori, stante la sua indivisibilità.
Le
convenute aderivano alla domanda di divisione, chiedendo che
l'immobile fosse congiuntamente ad esse attribuito.
Il
tribunale attribuiva l'immobile de quo alle convenute sul rilievo che
nel gruppo di queste ultime vi era il comproprietario che era
titolare della quota maggiore; tale decisione era riformata in sede
di gravame, con attribuzione dell'immobile agli attori che erano in
comunione legale; le spese del doppio grado di giudizio erano
compensate.
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Hanno
proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi Z.P.C.L. e
Z.L..
Hanno
resistito gli intimati, proponendo ricorso incidentale.
Le
ricorrenti hanno proposto controricorso al ricorso incidentale.
2.
I ricorsi possono essere trattati in camera di consiglio ai sensi
degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ., essendo
manifestamente infondati.
RICORSO
PRINCIPALE:
L'unico
motivo censura la sentenza impugnata che, nel riaffermare i principi
in materia di comunione legale e la distinzione con la comunione
ordinaria, ne aveva fatto un'applicazione incongruente al caso de
quo, avendo violato il principio del favor divisionis al quale è
informato l'art. 720 cod. civ. che, nel caso in cui il cespite è
attribuito ai coniugi in regime di comunione legale dei beni, non
trova applicazione tenuto conto che, a differenza di quanto accade
nel caso di comunione ordinaria, i coniugi non possono procedere allo
scioglimento finchè dura il regime di comunione legale.
Il
motivo va disatteso.
La
sentenza ha correttamente applicato alla specie i principi in materia
di comunione legale dei beni fra i coniugi, secondo cui la comunione
legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è
una comunione senza quote, nella quale i coniugi non sono
individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente
titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni
della comunione (arg. ex art. 189, comma 2); mentre nei rapporti con
i terzi ciascun coniuge non ha diritto di disporre della propria
quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il
consenso dell'altro coniuge come negozio unilaterale autorizzativo
diretto alla rimozione di un limite all'esercizio del diritto
dispositivo sul bene (Cass. 14093/2010; 21058/2007; S.U. 17952/2007;
Corte Cost. 311/1988).
Proprio
la considerazione che la comunione legale costituisce una proprietà
solidale senza quote e che i coniugi sono solidalmente titolari, in
quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione
e che, come rilevato dalle ricorrenti, la stessa non può sciogliersi
dimostra che la comunione legale non è equiparabile alla comunione
ordinaria con la conseguenza logica che l'attribuzione dell'immobile
indiviso ai coniugi non viola ma piuttosto costituisce attuazione del
principio del favor divisionis che invece sarebbe stato leso ove
l'immobile fosse stato attribuito in comproprietà alle convenute.
RICORSO
INCIDENTALE:
Il
ricorso denuncia la motivazione apparente e illogica con cui la
sentenza impugnata aveva compensato le spese processuali: mentre era
da considerarsi apparente la motivazione del Tribunale richiamata per
relationem dai Giudici, questi si erano dimostrati incoerenti perchè,
dopo avere rilevato che la natura della comunione legale era quella
elaborata dai consolidati precedenti giurisprudenziali, aveva poi
affermato l'obiettiva incertezza della configurazione teorica
dell'istituto.
Il
motivo va disatteso.
Il
riferimento alla natura del giudizio compiuto dal primo giudice e
fatto proprio dalla Corte di appello - esaminato alla luce delle
questioni trattate e del complessivo iter logico-giuridico della
decisione impugnata - non può configurare una motivazione apparente,
atteso che in tal modo i Giudici di secondo grado hanno evidentemente
inteso affermare la peculiarità e la complessità della
controversia, assumendo rilevanza particolare e decisiva non tanto la
natura della comunione legale quanto piuttosto l'applicazione dei
relativi principi in tema di attribuzione dell'immobile indivisibile
ai sensi dell'art. 720 c.c. (profilo certamente non esaminato dai
precedenti richiamati): il che era evidentemente assorbente delle
ulteriori considerazioni in merito alla incertezza sulla
configurazione giuridica della comunione legale".
Vanno
ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione,
che il Collegio condivide non potendo ritenersi meritevoli di
accoglimento i rilievi formulati dalle ricorrenti con la memoria
illustrativa. Qui occorre soltanto sottolinearsi che la struttura
normativa della comunione legale fra coniugi è profondamente diversa
da quella legale, così che è da escludere che l'attribuzione del
bene agli attori, contitolari della quota maggioritaria del 50%, leda
il principio del favor divisionis al quale è ispirato l'art. 720
c.c. atteso che - seppure la comunione legale non è un soggetto di
diritto distinto dalle persone dei singoli coniugi ma sta piuttosto a
indicare il regime patrimoniale al quale è sottoposta la massa dei
beni dei coniugi - va evidenziata la considerazione unitaria da parte
del legislatore del diritto dei coniugi i quali non sono titolari di
un diritto di quota di cui possano disporre come avviene nella
comunione ordinaria - ma sono solidalmente titolari di un diritto sui
beni comuni di cui ciascuno dei coniugi può disporre senza il
consenso dell'altro. Ed invero, nella comunione legale la quota non e
un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la
misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai
creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità
sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso
i creditori della comunione (art. 190), e infine la proporzione in
cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo saranno ripartiti
tra i coniugi o i loro eredi (art. 194): il rilievo che, in
considerazione della sua natura, la comunione legale non realizza uno
stato di indivisione temporaneo o provvisorio trova conferma proprio
nella impossibilità per i coniugi di procedere allo scioglimento dei
beni (art. 191 c.c.).
Ne
consegue che correttamente l'intero immobile è stato attribuito agli
attori - come si è detto - contitolari della quota maggioritaria,
tenuto conto del principio secondo cui in applicazione del principio
del "favor divisionis" nel caso in cui, in presenza d'una
pluralità di richieste di assegnazione, nell'eredità sia compreso
un immobile non comodamente divisibile, va accolta la richiesta di
attribuzione di detto bene del coerede condividente titolare della
quota maggiore, e non quella di attribuzione congiunta del bene degli
altri aventi diritto a quote tra loro eguali, atteso che quest'ultima
a differenza dell'attribuzione del bene al maggior quotista
comporterebbe il protrarsi della comunione, sia pure con riferimento
ad un numero di partecipanti minore di quello originario (Cass.
8922/1991; 1566/1999; 8827/2008).
Pertanto,
il ricorso principale va rigettato.
Vanno
condivise le considerazioni del relatore anche relativamente al
ricorso incidentale che pure deve essere rigettato.
La
peculiarità della vicenda induce a compensare le spese relative alla
presente fase.
Ai
sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, va formulato, in relazione alla
questione oggetto del ricorso principale il seguente principio di
diritto:
"Nell'ipotesi
di immobili non comodamente divisibili l'attribuzione dell'intero
immobile in comproprietà ai coniugi, contitolari in regime
patrimoniale di comunione legale dei beni della quota maggiore, non è
in contrasto con il principio del favor divisionis al quale è
informato l'art. 720 c.c., tenuto conto della considerazione unitaria
del diritto dei coniugi i quali - a stregua della disciplina prevista
dall'art. 159 c.c. e ss., - non sono titolari di un diritto di quota
di cui possano disporre - come avviene nella comunione ordinaria - ma
sono solidalmente titolari di un diritto sui beni comuni di cui
ciascuno dei coniugi può disporre senza il consenso dell'altro.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso principale e quello incidentale.
La piena operatività del servizio di telefonia fissa rappresenta una necessità di qualsiasi utente.
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Conseguentemente è necessario un perfetto funzionamento dei servizi telematici in assenza del quale il danno è in re ipsa.
Questo è quanto affermato dal Giudice di Pace di Milano con una recente pronuncia in cui si afferma che "l’accertato inadempimento parziale rispetto a quanto convenuto determina una responsabilità contrattuale in capo alla società, la quale è pertanto tenuta a risarcire il danno che ne è derivato, quand’anche questo non possa essere quantificato esattamente".
La domanda è fondata e va accolta, anche se parzialmente ridotta nel "quantum".
Risulta pacifico e non contestato:
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- che l'Avv. Pa., in data 11.12.2008, ha sottoscritto un contratto con Fa., denominato "(...)", avente ad oggetto la fornitura di servizi di telecomunicazioni con particolari condizioni tariffarie, che prevedeva il servizio accessorio c.d. di "(...)", tramite il quale il Cliente, pur cambiando il gestore telefonico, manteneva la numerazione telefonica già in uso con il precedente gestore (doc. 1 e 2 fasc. attoreo);
- che la linea fax dell'attore corrispondente al n. (...) non è mai stata attivata, malgrado ne fosse stata garantita la portabilità. Dalla documentazione prodotta in giudizio emerge che Fa. S.p.A. ha offerto un servizio non corrispondente a quanto contrattualmente pattuito e non ha mai dato riscontro alle numerose richieste di assistenza e chiarimenti formulate dall'attore, anche in merito alla rispondenza delle somme richieste dalla convenuta con gli accordi economici previsti nel pacchetto "(...)".
La convenuta, nei suoi scritti difensivi, ha sostenuto che sia per l'attivazione dei servizi che per la procedura di portabilità era necessaria la collaborazione dell'operatore Te., ma non ha poi fornito alcuna prova in contrasto con quanto esposto dall'attore, il quale ha dichiarato di aver appreso nel dicembre 2010 che il trasferimento della propria linea telefonica per il rientro in Te. era impedito dalla stessa Fa. S.p.A. (doc. 21 e 22 fase, attoreo).
Quanto alla richiesta di risarcimento danni formulata dall'attore, è innegabile che l'inadempimento dell'operatore telefonico ha provocato un grave pregiudizio all'Avv. Pa. Considerato che la piena operatività di un servizio di telefonia rappresenta ormai una necessità per qualsiasi utente, trattandosi nella fattispecie di servizi necessari per l'esercizio di un'attività professionale, per lo svolgimento della quale è essenziale un perfetto funzionamento dei mezzi telematici, si deve concludere che il danno è "in re ipsa" e consiste nella difficoltà di raggiungere via fax clienti e colleghi o nell'impossibilità di essere chiamati o contattati dagli stessi. Va, inoltre, riconosciuto un danno relativo alla lesione dell'immagine professionale, come recentemente deciso dalla Suprema Corte, che ha confermato una sentenza dei giudici di appello, che avevano condannato una società telefonica al risarcimento del danno ad un professionista conseguente al disservizio causato sulle utenze telefoniche (Cass. Civ. sent. n. 1418/11 del 21.01.2011).
Dal suddetto inadempimento deriva, ex art. 1223 c.c., il diritto dell'attore ad essere risarcito.
Risultando provato il danno nella sua esistenza, ma non potendo essere esattamente quantificato, con una valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., viene determinato in Euro 3.000,00, sulla base della durata e della gravità dei disservizi. Da tale somma andrà detratto l'importo che si ritiene dovuto dall'attore per i servizi forniti da Fa. e di cui lo stesso ha usufruito, equitativamente determinato in Euro 750,00, in considerazione della mancata prova da parte della convenuta che le somme richieste e contestate dall'attore siano state correttamente calcolate sulla base delle condizioni tariffarie concordate.
Per quanto sopra esposto, la convenuta va condannata al pagamento della somma di Euro 2.250,00, oltre interessi legali dal dovuto al saldo effettivo. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano d'ufficio come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Giudice di Pace, ogni contraria istanza, deduzione, eccezione disattesa, così provvede:
- condanna Fa. S.p.A. al pagamento, in favore dell'attore, della somma di Euro 2.250,00, oltre interessi legali dal dovuto al saldo;
- condanna la convenuta alla rifusione delle spese processuali liquidate nella somma di Euro 1.725,14, di cui Euro 288,14 per spese, Euro 1.437,00 per diritti ed onorari, oltre spese generali (12,50%) ed accessori di legge.
1) Con il primo motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, art. 9, commi 3 e 4, nonchè violazione dell'art. 24 del regolamento Comune di Capannori approvato con delibera di C.C. n. 26 del 13 aprile 2004, regolamento TIA, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il motivo si sviluppa in una complessa e ricostruzione del quadro normativo che però non viene contraddetta della sentenza impugnata che così si esprime:
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"Non risulta fondata la tesi, sostenuta dall'appellante, dell'esenzione totale dall'applicazione della tariffa, sul presupposto dello smaltimento in proprio dei rifiuti, nè la tesi subordinata della esclusione dalla tassazione di alcune aree in quanto pertinenze non idonee a produrre rifiuti. Si ritiene infatti che - rilevato che il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, comma 3, assoggetta alla tariffa qualsiasi locale o area scoperta, a condizione che non costituiscano accessori o pertinenze dei locali medesimi - non può sostenersi che i locali facenti parte del ciclo produttivo possano ritenersi accessori o pertinenze, ovvero esentabili dal tributo per effetto dello smaltimento in proprio dei rifiuti. In realtà la norma prevede una quota fissa alla quale i locali devono essere assoggettati ed una quota variabile correlata alla quantità dei rifiuti smaltiti, sulla quale spetta una
riduzione proporzionale alla quantità di rifiuti assimilati che il contribuente dimostri di avere smaltito in proprio".
La contestazione sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, riguarda invece il passo della sentenza in cui si afferma "mentre non spetta l'esenzione, spetta invece al contribuente, la riduzione proporzionale della quota variabile in proporzione ai rifiuti di cui è stato documentato in sede contenziosa, l'avvenuto smaltimento in proprio, peraltro non contestato da ASCIT sul piano sostanziale, ma solo con eccezioni di natura formale".
Il passaggio contiene una duplice motivazione in fatto "la documentazione in sede contenziosa dell'avvenuto smaltimento in proprio", e la "mancata contestazione da parte di ASCIT. Questo secondo profilo non è investito dal ricorso e dunque il motivo deve essere rigettato.
2) Con il secondo motivo (con cui deduce: "Error in iudicando: per violazione o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 3, L. 13 maggio 1999, n. 133, art. 6, comma 13, e D.M. 24 ottobre 2000, n. 370, con riferimento al mancato assoggettamento ad iva della TIA, in relazione all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3) la ricorrente assume che la CTR avrebbe erroneamente escluso che la TIA dovuta dal contribuente sia assoggettata ad Iva.
Giova a questo proposito ricordare che la natura tributaria della T.I.A. è stata affermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza della Corte Cost. 238/2009 (confermata con l'ordinanza n. 64 /2010).
E da questo dato la sentenza 238 ha tratto l'affermazione secondo cui "la.... inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l'entità del prelievo.... porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell'assoggettamento ad IVA ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 3 e 4, e caratterizzato dal pagamento di un corrispettivo per la prestazione di servizi". La natura tributaria della TIA è stata poi ribadita anche da questa Corte a SS.UU. con le sentenze n. 14903/2010 e n. 25929/2011. Si tratta, del resto, di
giurisprudenza pacifica per cui si veda ad esempio la recente sentenza della prima sezione civile n. 2320 del 17 febbraio 2012.
In questa situazione normativa e giurisprudenziale, è intervenuta "la manovra di emergenza" contenuta nel D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010, attraverso l'art. 14, comma 33, (patto di stabilità interno ed altre disposizioni sugli enti territoriali) secondo cui "le disposizioni di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006,
n. 152, art. 238, si interpretano nel senso che la natura della tariffa ivi prevista non è tributaria. Le controversie relative alla predetta tariffa, sorte successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria". Disposizione che appare piuttosto contorta e intimamente contraddittoria: se la "tariffa" "non è tributaria" la giurisdizione sembra non possa essere assegnata al giudice tributario neanche per le controversie sorte anteriormente alla entrata in vigore
del decreto 78.
E' possibile che attraverso la citata norma la Amministrazione, che ha elaborato il provvedimento, intendesse sottoporre ad IVA le somme versate, in passato, a titolo di TIA (così come si può ricavare dalla Circ. n. 3/DF dell'11 novembre 2010 Min. economia e finanze - Dip. Finanze;mentre la tesi dell'assoggettamento della Tia ad Iva è, ad esempio, esplicitamente enunciata nella Ris. n. 25/E del 5 febbraio 2003). Si deve però costatare che, se questa era l'intenzione, l'intentio legislatoris non si è tradotta in una voluntas legis, cioè uno contenuto normativo adeguato.
La stessa circolare 3/DF prende atto della circostanza che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, crea una "seconda Tia", destinata a sostituire con il tempo la "prima Tia" nata dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49, (nei medesimi termini è il parere della Corte dei Conti Sezione Piemonte n. 65 del li novembre 2010). E dunque il disposto del D.L. riguarda direttamente solo la TIA2 e può essere esteso alla TIA1 solo ove si ritenga che ci si trovi di fronte ad una norma di carattere sostanzialmente interpretativo.
Ma così non è, perchè la giurisprudenza della Corte Costituzionale e di questa Corte era - come riferito - già al momento della entrata in vigore del D.L. n. 78 del 2010, pacificamente orientata nel senso di ritenere la natura tributaria e non di corrispettivo della TIA1. E dunque la disposizione sulla Tia2 ha carattere innovativo, o - meglio - istituisce una tariffa che nell'intenzione del legislatore dovrebbe essere ontologicamente diversa rispetto alla "prima Tia".
La inapplicabilità del D.L. 78 alla "prima TIA" rende irrilevante ai fini della decisione della controversia ogni questione relativa alla interpretazione della nuova norma ed alla sua legittimità costituzionale.
Si deve - invece - qui soltanto dar atto che la TIA di cui si discute ha natura tributaria e quindi non è soggetta ad IVA, dal momento che l'Iva come qualsiasi altra imposta deve colpire una qualche capacità contributiva. Ed una capacità contributiva si manifesta quando un soggetto acquisisce beni o servizi versando un corrispettivo, non quando paga un'imposta, sia pure "mirata" o "di scopo" cioè destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il soggetto stesso.
Per quanto attiene poi all'Iva, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, puntualizza che sono soggetta a tale imposta solo le prestazioni di servizi "verso corrispettivo" e non quelle finanziate mediante imposte.
Dunque solo ove sussista un "corrispettivo" sarà applicabile il n. 127 sexiesdecies della Tabella A parte terza allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, e dovrà essere applicata l'Iva sulle "prestazioni di gestione, stoccaggio e deposito temporaneo, di rifiuti urbani e di rifiuti speciali nonchè sulle prestazioni di gestione di impianti di fognatura e depurazione.
Nè appare rilevante la tesi della ricorrente secondo cui la natura tributaria di un'entrata non escluderebbe di per sè l'applicazione dell'Iva (un cenno dubitativo in questo senso si può leggere nella sentenza n. 5298 del 5 marzo 2009 della prima sezione civile della Corte); per giungere risultato cui mira la ricorrente, risultato che si porrebbe in contrasto con i principi che regolano la materia, sarebbe infatti necessaria una esplicita disposizione legislativa (che
trasformerebbe l'IVA in una sorta di "soprattassa"); ma tale elemento normativo non è reperibile nel D.L. n. 78 del 2010, nè in altre disposizioni di legge.
Con il terzo motivo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, e del D.Lgs. 18 dicembre 197, n. 472, art. 6, art. 39 regolamento Comune di Capannori approvato con delibera di C.C. n. 26 del 13 aprile 2004, regolamento TIA; nonchè insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la Ascit s.p.a. lamenta che la CTR, nel ritenere non dovute le penalità per omessa comunicazione di variazione, avrebbe insufficientemente motivato in ordine alla individuazione degli elementi sulla base dei quali rinvenire la condizione di obiettiva incertezza.
Inammissibile è la censura di violazione di legge in assenza di specifica indicazione della argomentazioni della CTR in contrasto con la normativa indicata.
Inammissibile è altresì la censura in ordine alla motivazione facendo la ricorrente riferimento a circostanze "le penalità sono state irrogate per l'infedeltà della denuncia" contraddette dalla sentenza impugnata - laddove si fa riferimento "ad un nuovo accertamento derivato da una revisione d'ufficio, da parte di Ascit, dei criteri applicativi della tariffa rispetto a quelli dalla medesima precedente applicati in analogia ai criteri TARSU", nè la ricorrente Ascit ha trascritto il contenuto dell'avviso di accertamento.
Il ricorso deve dunque essere rigettato, non vi è luogo a provvedere per le spese.
La presente controversia, di indubbia peculiarità, trae le proprie origini dal rapporto instaurato tra le odierne parti per il tramite del sito web denominato “Fa.”. Trattasi, come è ormai notorio, di un c.d. social network ad accesso gratuito fondato nel 2004 da uno studente dell’Università di Ha. al quale, a far tempo dal settembre 2006, può partecipare chiunque abbia compiuto dodici anni di età: peraltro, se scopo iniziale di “Fa.” era il mantenimento dei contatti tra studenti di università e scuole superiori di tutto il mondo, in soli pochi anni ha assunto i connotati di una vera e proprie rete sociale destinata a coinvolgere, in modo trasversale, un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet. Questi ultimi partecipano creando “profili” contenenti fotografie e liste di interessi personali, scambiando messaggi (privati o pubblici) e aderendo ad un gruppo di c.d. “amici”: quest’ultimo aspetto è rilevante, anche ai fini della presente decisione, in quanto la visione dei dati dettagliati del profilo di ogni singolo utente è di solito ristretta agli “amici” dallo stesso accettati. “Fa.”, come detto, include alcuni servizi tra i quali la possibilità per gli utenti di ricevere ed inviare messaggi e di scrivere sulla bacheca di altri utenti e consente di impostare l’accesso ai vari contenuti del proprio profilo attraverso una serie di “livelli” via via più ristretti e/o restrittivi (dal livello “Tutti” a quello intermedio “Amici di amici” ai soli “Amici”) per di più in modo selettivo quanto ai contenuti o alle stesse “categorie” di informazioni inserite nel profilo medesimo.
Quindi, agendo opportunamente sul livello e sulle impostazioni del proprio profilo, è possibile limitare l’accesso e la diffusione dei propri contenuti, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo.
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E’ peraltro nota agli utenti di “Fa.” l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività di c.d. “tagging” (tradotta in lingua italiana con l’uso del neologismo “taggare”) che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in chat, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network.
I gestori del sito (statunitensi, secondo la Polizia Postale), pur reputandosi proprietari dei contenuti pubblicati, declinano ogni responsabilità civile e/o penale ad essi relativa (come dimostra, eloquentemente, una recentissima e dibattuta controversia giudiziaria riguardante il motore di ricerca “Go.”). In definitiva, coloro che decidono di diventare utenti di “Fa.” sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto.
Il caso di specie è emblematico in tal senso.
Due giovani si conoscono e socializzano tramite “Fa.” e tra loro ha inizio una relazione da entrambi definita sentimentale, con sviluppi non lineari ed irreprensibili, descritti dal convenuto in modo minuzioso, pur se irrilevanti ai fini della presente decisione. In tale contesto si inserisce l’invio da parte di T. P. di un messaggio a mezzo “Fa.” a F. B., datato 1.10.2008 e del seguente eloquentissimo tenore: “Senti brutta troia strabica che nn sei altro … T consiglio di smetterla. Nn voglio fare il cattivo sputtanandoti nella tua sfera sociale dove le persone t stimano (facebook, myspace, ecc.). Purtroppo nn siamo To. Ve. o Fi. Na. … quindi nn appetibili sessualmente per te. T consiglio di caricare le foto ove la frangia nn t nasconde il litigio continuo dei tuoi occhi e nello stesso tempo il numero di un bravo psichiatra che può prescriverti al più presto possibile, pastigle rettali da cavallo con funzione antidepressiva (se t piaceva il dito non mi immagino il farmaco). Con queste affermazioni, vere, chiedo di eclissarti e di smetterla di ossessionarmi come il tuo grande idolo e modello comportamentale … Mentos! Ah … Tutti i miei orgasmi erano finti …=) ihoho“.
Trattasi, in tutta evidenza, di un messaggio denotante la conoscenza non solo della imperfezione fisica sofferta da F. B., ma anche e soprattutto di alcune sue presunte preferenze maschili e abitudini sessuali.
Per di più, il messaggio presuppone precedenti conversazioni non gradite al mittente (“T consiglio di smetterla”) e che trovano riscontro nelle difese del convenuto, laddove ha lamentato il preteso comportamento persecutorio di parte attrice e la propria conseguente giustificata reazione. Difese che, ad onor del vero, si appalesano ictu oculi come contraddittorie nel momento in cui alla contestazione della provenienza del messaggio è poi soggiunta la non riferibilità a F. B. del suo contenuto. Immeritevoli di accoglienza appaiono, comunque, le generiche eccezioni svolte dal convenuto in relazione alla effettiva provenienza del messaggio de quo, posto che è ampiamente documentata dall’attrice la partecipazione di T. P. alla discussione in chat messaggistica sul profilo di un comune “amico Fa.” (tale G. F.) a commento di una foto che li ritrae assieme, l’inserimento di F. B. in tale conversazione web e la replica finale suggellata dal messaggio del quale oggi si discute (doc. 2). Maggiormente dimostrativo della provenienza dal convenuto del messaggio in esame è l’ulteriore scambio di messaggi avvenuto tra le parti in ora tarda (ore 22,37 attrice – ore 1,03 convenuto: doc.3), dal quale si evince anche la volontà di T. P. di rivendicare nuovamente il contenuto di quanto in precedenza scritto (“Se fosse stato per me il commento l’avrei lasciato, ma il mio amico l’ha voluto cancellare …”) e di voler sin da allora individuare una possibile scappatoia nella pretesa non riferibilità all’attrice delle gravi espressioni adottate (“Non vedo il tuo nome scritto nel commento pubblico della mia foto con i miei amici”).
Quest’ultima affermazione del convenuto è, di contro, dimostrativa del carattere pubblico delle offese arrecate: offese certamente riconducibili in modo immediato e diretto a F. B., non solo per la riferita forzata condivisione con i comuni “amici Fa.” delle abitudini di vita dell’attrice e dei suoi asseriti comportamenti vessatori (v. pag. 4 comparsa di risposta), ma anche più semplicemente per la evidente circostanza che il messaggio ingiurioso è immediatamente successivo a quello inviato dalla stessa F. B. a commento della foto pubblicata dal comune “amico Fa.” G. F. (il quale, poi, a detta dello stesso convenuto ebbe a “cancellare” il messaggio de quo).
La nota impossibilità di registrazione nel social network a nome di un utente già registrato (confermata anche in via documentale dall’attrice: docc. 4-5-6) e l’assenza di formali denunzie del convenuto concernenti eventuali e non dimostrati “furti d’identità” (anzi escludibili, alla luce dell’utilizzazione del medesimo recapito email, in altre occasioni pubblicato: doc. 7) consentono di affermare la provenienza del messaggio da T. P. Se a ciò si aggiungono le ulteriori considerazioni già ampiamente svolte in relazione alle note caratteristiche di “Fa.”, ai suoi altrettanto notori e conosciuti limiti ed alla consapevole accettazione dei conseguenti rischi di una sua non corretta utilizzazione, non possono sussistere ragionevoli dubbi sulla affermazione di civile responsabilità del convenuto quanto agli effetti ed ai pregiudizi arrecati dal messaggio del giorno 1.10.2008 e dalla reale (e (ancor potenziale) sua diffusione.
Dunque, T. P. dev’essere condannato al risarcimento dei danni arrecati per tale via a F. B., dovendosi al riguardo escludere le invocate scriminanti o diminuenti di cui all’art. 599 c. II° c.p. ed all’art. 1227 c.c., certamente apparse incongrue anche in ossequio alla stessa prospettazione dei fatti offerta dalla difesa del convenuto.
Relativamente al quantum debeatur, ribadito che parte attrice ha limitato le proprie richieste al risarcimento “del danno morale soggettivo o, comunque, del danno non patrimoniale” sofferto quale diretta conseguenza della subita lesione “alla reputazione, all’onore e al decoro” cagionatale dal convenuto mediante l’invio del messaggio oggetto di causa, appare utile brevemente in diritto premettere come, recentemente, la Suprema Corte abbia riaffermato l’autonomia del danno morale rispetto alla più ampia categoria del danno non patrimoniale (Cass. 12.12.2008 n. 29191), in apparente contrasto con le note decisioni adottate dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 11.11.2008 numeri 26972 e 26975), che hanno negato valenza autonoma al danno morale, relegandolo al rango di sottocategoria del danno non patrimoniale.
Peraltro, per quel che qui rileva, le Sezioni Unite avevano affermato “che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula danno morale non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive – tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali – un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata: sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento”. Nel caso di specie, avendo parte attrice invocato la liquidazione “del danno morale soggettivo o, comunque, del danno non patrimoniale” per tale via e in modo esclusivo individuato, le anzidette problematiche interpretative ben possono considerarsi irrilevanti, così come la stessa querelle riguardante la eccepita necessità di individuare, ai fini della liquidazione, una fattispecie di reato nell’ambito delle vicende discusse in giudizio.
Come è noto, il danno non patrimoniale trae la propria specifica origine dall’art. 2059 c.c., alla luce del quale simile pregiudizio deve essere risarcito “solo nei casi determinati dalla legge”: tale possibilità risarcitoria sembrava dunque limitata alle sole ipotesi di reato, così come previsto dall’art. 185 c.p. A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sent. 30.6.2003 n. 233) può ormai dirsi del tutto superata questa interpretazione limitativa, di talchè ogni lesione di valori di rilievo costituzionale inerenti la persona comporta il ristoro del danno non patrimoniale sofferto.
Qui va rimarcata la risarcibilità, attesi i limiti della domanda attrice, del solo danno morale soggettivo inteso quale “transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima” del fatto illecito, vale a dire come complesso delle sofferenze inferte alla danneggiata dall’evento dannoso, indipendentemente dalla sua rilevanza penalistica.
Rilevanza che, peraltro, ben potrebbe essere ravvisata nel fatto dedotto in giudizio, concretamente sussumibile nell’ambito della astratta previsione di cui all’art. 594 c.p. (ingiuria) ovvero in quella più grave di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione) alla luce del cennato carattere pubblico del contesto che ebbe a ospitare il messaggio de quo, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione a seguito di tagging. Elemento, quest’ultimo, idoneo ad ulteriormente qualificare la potenzialità lesiva del fatto illecito, in uno con i documentati problemi di natura fisica ed estetica sofferti da F. B. (doc. 1). Alla luce di quanto accertato in fatto, della evidente lesione di diritti e valori costituzionalmente garantiti (la reputazione, l’onore, il decoro della vittima) e delle conseguenti indubbie sofferenze inferte all’attrice dalla vicenda della quale si discute, in via di equità, può essere liquidata ai valori attuali, a titolo di danno morale ovvero non patrimoniale, la somma di Euro 15.000,00.
Le spese processuali seguono la soccombenza del convenuto e si liquidano come da dispositivo. La presente sentenza dev’essere munita, ai sensi di legge, della clausola di provvisoria esecutività di cui all’art. 282 c.p.c.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta con atto di citazione notificato il 12.3.2009 da F. B. nei confronti di T. P., così provvede: 1) condanna T. P. al pagamento, in favore di F. B., della somma di Euro 15.000,00 oltre agli interessi legali dalla data del fatto al saldo; 2) lo condanna, altresì, al pagamento delle spese processuali in favore di parte attrice, liquidate nella misura di Euro 4.400,58 (di cui Euro 186,58 per esborsi, Euro 1.214,00 per diritti ed Euro 3.000,00 per onorari), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge; 3) dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
Andare in bicicletta contromano non è più vietato.
La Federazione Italiana Amici della Bicicletta (FIAB) è riuscita ad ottenere il parere favorevole del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti alla realizzazione di una misura che permetterebbe alle biciclette, in presenza di determinate condizioni di percorrere le strade delle città in controsenso.
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Le condizioni necessarie per il doppio senso sono:
1. Larghezza della strada di almeno 4,25 metri;
2. Zona a Traffico Limitato (ZTL);
3. Limite di velocità a 30 km/h;
4. Divieto di transito al traffico pesante.
Le condizioni così individuate fanno sì che si possa circolare a doppio senso nella maggior parte delle strade italiane.