Lo Studio Legale Nappo nasce con l’obiettivo di offrire alla Clientela assistenza e consulenza con particolare attenzione alle questioni riguardanti il diritto commerciale e societario, il diritto tributario, il diritto informatico, la contrattualistica, la protezione dei dati, i marchi e brevetti, nonché in ambito di diritto del lavoro e previdenziale, offrendo al cliente strumenti validi e continuità del servizio, serietà, competenza, preparazione e celerità d'azione per rispondere in tempo reale alle problematiche sottoposte. L’attività professionale offerta è sia di carattere stragiudiziale, sia di carattere giudiziale avanti a tutte le Magistrature. Attualmente l'Avv. Milena Nappo è DPO Certificato e Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, è inserito nell'elenco dei legali esterni di ANAS Emilia Romagna e del Comune di Terre del Reno, è consigliere del Gruppo Professioni CNA di Ferrara e membro del CID CNA Impresa Donna Ferrara, è consulente per ASPPI Ferrara - Poggio Renatico, e fa parte della prestigiosa associazione Fidapa BPW Italy.

E' POSSIBILE LICENZIARE IL LAVORATORE IN MALATTIA?

Il datore di lavoro non può recedere dal contratto in caso di malattia del lavoratore prima della decorrenza del periodo di comporto, ovvero del periodo durante il quale il lavoratore ha diritto 










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alla conservazione del posto di lavoro. Fatto salvo il licenziamento per giusta causa.


Ciò significa che superato il periodo di comporto, il licenziamento non è automatico, ma il datore può comunicare per iscritto la propria volontà di recedere dal rapporto stesso, osservando l’obbligo del preavviso.

E' POSSIBILE LICENZIARE UN LAVORATORE IN PROVA?

Generalmente i contratti di lavoro prevedono che il datore possa licenziare il proprio dipendente in prova in qualsiasi momento e senza alcun preavviso.


I presupposti per un corretto esercizio del potere di recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore sono:









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QUALE FORMA DEVE AVERE IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE?

Il licenziamento per essere formalmente valido deve essere comunicato al lavoratore in forma scritta (art. 2, co. 2, L . n.108/1990). In caso di comunicazione verbale sarà pertanto opportuno sia contestarne l’illegittimità per vizio di forma, sia presentarsi comunque al lavoro. 


I motivi del licenziamento inoltre non vengono quasi mai forniti al momento del licenziamento stesso. E' per tale motivo che la legge prevede la facoltà, esercitabile entro 15 giorni dal lavoratore, di chiedere che gli vengano comunicati.







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A seguito della richiesta, e comunque entro 7 giorni dalla stessa il datore di lavoro dovrà fornire i motivi analiticamente onde consentire al lavoratore la piena esplicazione del diritto alla difesa.


È consigliabile inoltre che il lavoratore presenti la richiesta della motivazione per iscritto ai fini della prova dell'invio della richiesta.

COS'E' IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO?

Il giustificato motivo oggettivo rappresenta la necessità del datore di lavoro di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore per ragioni non legate al lavoratore e alle sue capacità personali, ma inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il suo funzionamento.









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Il giustificato motivo oggettivo, quindi, può consistere sia nell
a soppressione di un determinato posto di lavoro, sia nella fine di lavori o di una fase lavorativa o produttiva.

In tutti i casi però il datore dovrà dimostrare che il licenziamento è l'unica strada percorribile, non essendo possibile variare le mansioni del lavoratore.

COS'E' IL GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO?

Quando si parla di licenziamento per giustificato motivo soggettivo si intende un licenziamento dovuto ad un importante inadempimento, da parte del lavoratore, degli obblighi contrattuali che non determina il licenziamento in tronco.









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Le ipotesi più frequenti di licenziamenti per giustificato motivo soggettivo sono:
- abbandono del posto di lavoro;
- simulazione dello stato di malattia, falsificazione del certificato medico, rifiuto di riprendere il lavoro successivamente alla guarigione;
- scarso rendimento del lavoratore dovuto ad una condotta colpevole;
- violazione dei doveri di diligenza, obbedienza, fedeltà.

COME VIENE SANZIONATO IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE ILLEGITTIMO?

Nel momento in cui il giudice accerta l’illegittimità del licenziamento, individua la sanzione da applicare al datore di lavoro in base ad una serie di criteri che riguardano anche la dimensione dell’azienda datrice.
In particolare occorre distinguere tra tutela reale e tutela obbligatoria.




TUTELA REALE






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La tutela reale si applica per gli imprenditori o le imprese che occupano nell‘unità produttiva oltre i 15 lavoratori dipendenti, compresi i part-time (ovvero oltre i 5 dipendenti in caso di svolgimento di attività agricola), ovvero che occupano oltre i 15 dipendenti nell‘ambito dello stesso comune anche se dislocati in più unità produttive, ovvero oltre i 60 lavoratori indipendentemente dalla loro collocazione.
La tutela reale prevede la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno subito. La legge attribuisce tuttavia al lavoratore la facoltà di rinunciare alla reintegrazione nel posto di lavoro, chiedendo in sostituzione un’indennità.
Non vengono contati, ai fini della determinazione del numero dei dipendenti, i lavoratori assunti con contratto a termine, gli apprendisti, il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea retta e collaterale.




TUTELA OBBLIGATORIA
Prevista per le aziende più piccole prevede sanzioni meno gravi: il giudice che riscontra l’illegittimità del licenziamento deve riassumere il lavoratore entro 3 giorni, ovvero corrispondere allo stesso una indennità che può variare dalle 2,5 alle 6 mensilità. Al datore di lavoro in pratica è data la facoltà di scegliere tra la riassunzione o il pagamento dell’indennità.
Tale forma di tutela si applica, oltre che per le aziende che non possiedono i requisiti previsti per la tutela reale, anche ai lavoratori dipendenti da enti pubblici in cui la stabilità non è garantita da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale; ed ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, d’istruzione ovvero di religione e di culto.

PUO' ESSERE REVOCATO IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE?

Preliminarmente si precisa che la revoca del licenziamento individuale da parte del datore di lavoro consiste in una proposta contrattuale avente ad oggetto il ripristino del rapporto di lavoro. Per essere valida ed efficace, però, 





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la revoca deve essere accettata dal lavoratore per iscritto o per fatti concludenti.


Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, inoltre, non viene meno in caso di revoca del licenziamento stesso in quanto  la tutela risarcitoria ha carattere sanzionatorio per il datore. La condizione per accedere al risarcimento è che il rapporto di lavoro subisca una interruzione.

COSA VUOL DIRE PREAVVISO DI LICENZIAMENTO INVIDIDUALE?

Il preavviso non è altro che l’avvertimento dato in anticipo al lavoratore del suo licenziamento.


Il datore di lavoro pertanto è sempre tenuto a dare il preavviso del licenziamento nel termine e nei modi indicati nel contratto, tranne che nei casi di licenziamento in tronco per giusta causa. In assenza del preavviso, quindi, il datore dovrà pagare una indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore durante il periodo di preavviso.









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CHE FORMA DEVE AVERE IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE?

Per essere valido, il licenziamento deve possedere la forma scritta (art. 2, co. 2, L . n.108/1990).
 

Per essere valido, il licenziamento deve possedere la forma scritta (art. 2, co. 2, L . n.108/1990).
Ciò significa che il licenziamento comunicato verbalmente può essere contestato per vizio di forma (conviene quindi presentarsi ugualmente al lavoro!!).


Il datore inoltre non è obbligato a comunicare la motivazione del licenziamento contestualmente allo stesso. Per tale motivo:











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1. al lavoratore è riservata al facoltà di chiederla, entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento (ai fini probatori è meglio se la richiesta avviene per iscritto);
2. in caso di richiesta di motivazione il datore sarà obbligato a fornirla entro al massimo 7 giorni dalla richiesta stessa;
3. il datore dovrà esporre i motivi analiticamente onde consentire al lavoratore l’esercizio del diritto alla difesa.

COSA SI INTENDE PER GIUSTIFICATO MOTIVO?

Per legge esistono due ipotesi di giustificato motivo:

1. “giustificato motivo soggettivo”, dovuto a gravi mancanze del lavoratore inerenti gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro;












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2. “giustificato motivo oggettivo”, derivante da mere esigenze organizzative dell’impresa.

Link utili:
Cos'è il giustificato motivo soggettivo?
Cos'è il giustificato motivo oggettivo?

COSA SI INTENDE PER GIUSTA CAUSA?

Tutti i contratti collettivi individuano casi e modalità con cui il datore di lavoro può licenziare il proprio dipendente per giusta causa, ovvero per “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art. 2119 c.c.).


La giusta causa quindi consiste in un grave inadempimento del lavoratore che determina l’impossibilità della prosecuzione del rapporto di lavoro: in sostanza viene meno il rapporto fiduciario che lega datore e lavoratore.

I comportamenti che determinano il licenziamento, purché commessi in ambito lavorativo, sono:
- assenze ingiustificate;












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- insubordinazione, ingiurie, minacce o percosse;
- commissione di reati;
- rifiuto di trasferirsi o di mutare mansioni o essere adibito ad altre mansioni equivalenti;
- svolgimento di attività lavorativa durante la Cassa Integrazione.


Tuttavia anche taluni comportamenti commessi al di fuori dell’ambito lavorativo possono risultare idonei a far venir meno il rapporto fiduciario ed indurre il datore a ritenere il lavoratore non più idoneo alla prosecuzione del rapporto. Trattasi di fatti di enorme gravità che determinano il licenziamento in tronco, senza il diritto al preavviso né all’eventuale indennità di mancato preavviso.

QUANDO E' POSSIBILE IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE?

Il licenziamento è considerato legittimo solo in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo. Ciò vuol dire che il licenziamento deve sempre trovare la propria giustificazione in una ragione particolarmente grave.












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E' per tale motivo che il datore di lavoro, per poter predisporre il licenziamento di un proprio dipendente, deve seguire delle vere e proprie procedure (ad es. la comunicazione per iscritto del licenziamento) e, qualora richiesto dal lavoratore, deve indicare i motivi che l'hanno determinato, al fine di garantire la possibilità per il lavoratore di contestare il licenziamento stesso.

Suprema Corte di Cassazione - Sezione Lavoro - sentenza 31 agosto 2011 n. 17845

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 31 agosto 2011, n. 17845
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., lamenta che le impugnate sentenze non hanno preso in alcuna considerazione la domanda relativa alla nullità del licenziamento per violazione dell'art. 2112 c.c., avendo il datore di lavoro in sostanza inteso frazionare illegittimamente il rapporto di lavoro, attraverso una "simulata riassunzione", "senza concedere l'orario continuativo e non spezzato, così come richiesto dalla ricorrente" e non essendo, peraltro, corrispondente al vero "la dedotta cessazione dell'attività in quanto la stessa è proseguita con altra società per di più gestita dalla cognata dell'amministratore dell'attuale società", il tutto come specificato nell'atto di appello.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5, lamenta omessa pronuncia al riguardo da parte della Corte d'Appello.

Entrambi i motivi non meritano accoglimento.









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Come si evince dalla stessa esposizione della ricorrente e risulta confermato dalla lettura del ricorso di primo grado e dell'atto di appello (il cui esame diretto è ammesso a seguito della denuncia di error in procedendo contenuta nel primo motivo) la R. ha lamentato la "nullità del licenziamento per violazione dell'art. 2112 c.c.", allegando anche nuove circostanze di fatto, per la prima volta con l'appello, laddove in primo grado aveva semplicemente affermato che la società aveva inteso "illegittimamente frazionare il rapporto di lavoro".

Legittimamente, quindi, la Corte d'Appello ha preso in esame soltanto la domanda come svolta nel ricorso introduttivo di primo grado, le cui conclusioni sono riportate dettagliatamente nella sentenza impugnata n. 1160/2005.

Peraltro, con riferimento al secondo motivo, inammissibilmente e contraddittoriamente la ricorrente denuncia una omessa pronuncia sotto il profilo della denuncia di un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 in relazione all'art. 2697 c.c. e all'art. 418 c.p.c., lamenta che la Corte d'Appello avrebbe in sostanza implicitamente onerato il lavoratore di provare il requisito dimensionale per l'applicazione della tutela reale, laddove l'onere della prova era interamente a carico del datore di lavoro.

La ricorrente deduce inoltre che la Corte territoriale ha ritenuto l'unità produttiva di (OMISSIS) autonoma, "nonostante sul punto parte convenuta nulla avesse eccepito alle deduzioni di parte ricorrente", applicando, peraltro, criteri diversi da quelli dettati dalla giurisprudenza di legittimità.

Con il quarto motivo la ricorrente lamenta, inoltre, motivazione carente e contraddittoria in ordine alla sussistenza dell'unità produttiva di (OMISSIS) come autonoma.

Anche tali motivi, connessi fra loro, risultano infondati.

Innanzitutto il Collegio osserva che la Corte di merito non ha affatto addossato sul lavoratore l'onere della prova circa la sussistenza dei requisiti per l'applicabilità della tutela reale e neppure è andata in contrasto con il principio affermato al riguardo da questa Corte (v. Cass. S.U. 10-1-2006 n. 141, nonchè Cass. n. 12722/2006, Cass. n. 13945/2006, Cass. n. 15948/2006, Cass. 19275/2006, Cass. n. 6344/2009).

La Corte territoriale, infatti, all'esito dell'ordine di esibizione imposto alla società, esaminati i libri e le buste paga prodotti, ha ritenuto altresì "pacifico" che presso il negozio di mobili di (OMISSIS) erano occupati meno di 15 dipendenti.

Circa, poi, la autonomia di tale unità produttiva, la Corte, parimenti, ha fondato la propria decisione sulla base della valutazione degli elementi di fatto emersi, verificandone la sussistenza, senza addossare in alcun modo l'onere probatorio (contrario) sul lavoratore.

Peraltro la applicabilità dell'art. 18 S.L. nella fattispecie era stata espressamente contestata dalla società fin dalla memoria di costituzione di primo grado (richiamata nel controricorso).

Al riguardo come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito "agli effetti della tutela reintegratoria del lavoratore ingiustamente licenziato, per unità produttiva deve intendersi non ogni sede, stabilimento, filiale o reparto dell'impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale che eventualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune, si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale" con la conseguenza che "deve escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa" (v. Cass. 4-10-2004 n. 19837).

Orbene, applicando appieno tali criteri, la Corte territoriale ha rilevato che "nella fattispecie in esame il mobilificio di (OMISSIS) è una articolazione caratterizzata dalla realizzazione di un compiuto ciclo dell'attività produttiva, con autonoma possibilità di autodeterminazione e sicuramente non risulta integrare funzioni meramente strumentali ed ausiliarie dei fini produttivi dell'impresa, in una struttura più ampia, potendosi ritenere del tutto autonoma, sia dal punto di vista economico, produttivo e spaziale, rispetto al supermercato pure gestito dalla società appellata".

Tale valutazione di merito, conforme al diritto e sostenuta da adeguata motivazione, resiste, quindi, alle censure della ricorrente.

Con il quinto motivo, denunciando violazione dell'art. 2118 c.c. e L. n. 7 del 1963, art. 1 la ricorrente in sostanza sostiene che, in caso di pubblicazioni del matrimonio avvenute durante il preavviso di licenziamento, poichè il preavviso deve essere considerato a tutti gli effetti come periodo lavorato, il suddetto licenziamento dovrebbe essere considerato come nullo, in quanto poteva essere revocato.

Con il sesto motivo la ricorrente lamenta vizio di motivazione al riguardo, non avendo la Corte territoriale considerato nè l'efficacia reale del preavviso nè il fatto che il licenziamento può essere revocato nel momento in cui si venga a conoscenza di una determinata circostanza.

Con il settimo "motivo" la ricorrente, in subordine, solleva al riguardo eccezione di incostituzionalità con riferimento agli artt. 3 e 31 Cost.

Anche tali motivi non meritano accoglimento.

Come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito "la tutela accordata dalla L. 9 gennaio 1963, n. 7 alle lavoratrici che contraggono matrimonio è fondata sull'elemento obiettivo della celebrazione del matrimonio e non è subordinata all'adempimento di alcun obbligo di comunicazione (rispondente peraltro al dovere di collaborazione e di esecuzione del contratto secondo buona fede) da parte della lavoratrice; tanto si evince, in particolare, dalla presunzione concernente l'avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della lavoratrice disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l'anno successivo alla celebrazione delle nozze, alla cui stregua la possibilità di conoscenza del matrimonio inizia, per il datore di lavoro, con il compimento, da parte dei nubendi, delle formalità preliminari previste dal cod. civ." (v. Cass. 10-1-2005 n. 270).

In sostanza il divieto di licenziamento attuato a causa di matrimonio opera, in forza della presunzione legale di cui alla L. n. 7 del 1963, art. 1, comma 3, allorchè il licenziamento sia stato intimato, senza che ricorressero i presupposti di una delle ipotesi di legittimo recesso datoriale, contemplate nell'ultimo comma dello stesso art. 1, nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni ed un anno dalla celebrazione" (v, Cass. 29-7-2009 n. 17612).

Così essendo oggettivamente determinato dalla legge il periodo di riferimento della presunzione legale, soltanto il licenziamento "intimato" in tale periodo incorre nel relativo divieto.

Non può, quindi, assumere rilevanza la richiesta di pubblicazioni successiva al licenziamento, seppure intervenuta nel periodo di preavviso.

Nè al riguardo può invocarsi la efficacia reale del preavviso, che concerne il perdurare degli obblighi e dei diritti del rapporto di lavoro, ma non incide sulla determinazione del periodo previsto per la presunzione legale de qua, fondata su elementi oggettivi e certi.

Un eventuale spostamento della decorrenza del periodo stesso sarebbe, del resto, contrario sia alla lettera che alla rado della norma speciale.

Infine manifestamente infondata appare l'eccezione di incostituzionalità avanzata dalla ricorrente, peraltro in modo assolutamente generico e astratto, giacchè neppure è dato di comprendere sotto quali profili concreti venga ipotizzata una violazione dei principi di uguaglianza e di tutela della famiglia.

Del resto la legittimità costituzionale della norma in esame è stata affermata dal Giudice delle leggi in considerazione non solo della tutela del diritto individuale e dell'interesse pubblico, bensì anche della "considerazione del limite ben definito di durata entro cui è contenuto il divieto di licenziamento" (v. C. Cost. n. 46/1993 e n. 27/1969).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della società.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente le spese liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

IN CASO DI MATRIMONIO DA QUANDO DECORRE IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO?

La legge n. 7 del 9 gennaio 1963 sancisce il divieto per il datore di lavoro di licenziare la lavoratrice per causa di matrimonio durante il periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e fino ad un anno dopo il matrimonio stesso.








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In particolare in tale arco temporale vige la presunzione specifica di licenziamento a causa di matrimonio e la lavoratrice non è tenuta a  provare alcunché per dimostrare le motivazioni che hanno determinato la cessazione del rapporto lavorativo. Diversamente, al di fuori di questo periodo di presunzione vige il dovere in capo alla lavoratrice di provare che il suo licenziamento è stato effettuato per causa di matrimonio.
Un particolarità: il divieto non vale per le lavoratrici che prestano servizio in ambito  familiare o domestico.