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Suprema Corte di Cassazione - Sezione V Civile - sentenza del 09.03.2012 n. 3756


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V - CIVILE
Sentenza del 09.03.2012 n. 3756
Motivi della decisione 

1. – Sulla premessa che la tariffa aveva nella specie riguardato i locali utilizzati dalla contribuente per lo svolgimento di attività artigiana di falegnameria, la commissione, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che la detta quota variabile fosse dovuta in base ai rifiuti urbani prodotti, e non per le superfici ove si producono rifiuti speciali non assimilati raccolti a cura e spese del contribuente.

Ha quindi affermato che la società aveva sempre “dichiarato e dimostrato” di aver prodotto rifiuti del genere, provvedendo direttamente al relativo smaltimento. Donde era onere del comune – o dell’ente preposto -accertare semmai la promiscuità dei rifiuti prodotti (urbani e speciali), al fine di legittimamente pretendere anche la quota variabile della tariffa, seppure in misura ridotta.

Quanto all’Iva, la commissione l’ha ritenuta non dovuta in considerazione della natura propriamente tributaria della tia, definitivamente chiarita dalla Corte costituzionale a mezzo della sentenza n. 238/2009 e dell’ordinanza n. 300/2009. 2. – La ricorrente, col primo mezzo, censura la prima delle dette statuizioni, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 21 e 49, (c,d. decreto Ronchi) e degli artt. 17 e 24 dell’afferente regolamento del comune di Capannori (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè per insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5).

Ascrive alla sentenza, da un lato, di aver ravvisato un inesistente onere probatorio in capo all’ente impositore quanto alla produzione di rifiuti soggetti alla tariffa; e, dall’altro, di aver ritenuto assolta la contribuente dall’onere a essa spettante con una motivazione del tutto carente, avendo in sostanza affermato come dimostrata l’avvenuta produzione di rifiuti speciali (e il successivo smaltimento diretto dei medesimi) senza rilevare che non era risultato depositato, nè in primo, nè in secondo grado, alcun documento all’uopo attestante.




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3. – Il motivo è fondato nei limiti della dedotta insufficienza motivazionale della sentenza. Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di tarsu, il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 62, nel disporre che la tassa “è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito o attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli artt. 58 e 59″, pone una presunzione relativa di tassabilità, in forza della quale, costituendo le successive esenzioni un’eccezione alla regola generale di assoggettamento di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di raccolta è istituito o attivato, l’onere della prova, circa l’esistenza e la delimitazione delle superfici per le quali il tributo non è dovuto, grava su chi ritiene di avere diritto all’esenzione, e non sull’amministrazione del comune (v. per tutte Cass. n. 15083/2004; n. 4766/2004).

Tale principio rileva anche in materia di tia, non solo perchè codesta rappresenta – come ormai definitivamente chiarito – una mera variante della tarsu, conservando anche la relativa qualifica di tributo v. C. cost. n. 238/2009; n. 300/2009 (ord.) e n. 64/2010 (ord.), nonchè sez. un. 14903/2010 e, da ultimo, sez. un. n. 25929/2011; ma soprattutto perchè in tal senso depone lo specifico regime delineato dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49. Il quale ha invero previsto (al comma 3) che “la tariffa deve essere applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale”, salva l’applicazione sulla stessa, così come determinata dagli enti locali, di un “coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi” (comma 14).

L’impugnata sentenza, nell’affermare la non soggezione a tia delle aree produttive di rifiuti speciali non assimilati, non ha contravvenuto i riferiti principi di diritto. Nè ha sostenuto un inverso principio in tema di ripartizione dell’onere della prova, giacchè la valutazione associata alla carenza di prove della promiscuità dei rifiuti si rivela, nel testo della motivazione, solo consequenziale a quella di avvenuta previa dimostrazione, da parte del contribuente, della produzione di (soli) rifiuti speciali.

Tuttavia la commissione ha ritenuto assolto il suddetto onere della prova della contribuente a mezzo di un’affermazione apodittica; segnatamente a mezzo dell’affermazione che “la società ha sempre dichiarato e dimostrato di avere prodotto rifiuti speciali e di avere provveduto a propria cura e spese allo smaltimento”. Siffatta argomentazione, nella sua circolarltà, si rivela del tutto insufficiente a render conto del procedimento logico sottostante, in quanto non è detto da cosa la valutazione afferente sia stata tratta, e considerato che la ricorrente ha dedotto che, in verità, nessun documento attestante la produzione di rifiuti non assimilati era stato in effetti depositato, in primo come in secondo grado.

4. – Col secondo mezzo, Ascit denunzia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, L. n. 133 del 1999, art. 6, nonchè del D.M. 24 ottobre 2000, in relazione alla statuizione circa il non assoggettamento a Iva della tariffa di igiene ambientale.

Secondo la ricorrente, l’applicazione dell’Iva coglie, non già il corrispettivo tributario della tariffa, quanto invece, in base al citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, la sottostante prestazione di servizio. La stessa natura latamente tributaria di un importo – ad avviso della ricorrente – non escluderebbe in sè l’applicazione dell’Iva, come dimostrato, per esempio, dal fatto che scontano l’imposta le accise sui consumi energetici. Una simile conclusione – per quanto poi sostenuto in memoria – troverebbe conferma nella successiva evoluzione della neo-istituita tariffa integrata ambientale, disciplinata dal codice dell’ambiente – D.Lgs. n. 152 del 2006 – e nota come tia/2. Di questa, infatti, la circolare ministeriale n. 3/DF/2010 ha affermato la sostanziale identità rispetto alla tariffa d’igiene ambientale (c.d. tia/1); e la soggezione all’Iva in ragione della definizione non tributaria di cui alla norma d’interpretazione autentica (del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238) contenuta nel D.L. n. 78 del 2010, art. 14, comma 33, conv. in L. n. 122 del 2010. 5. – Il secondo mezzo è infondato.

6. – Occorre sgombrare il campo dalla considerazione da ultimo svolta, giacchè quanto appena evidenziato a proposito della rilevanza dell’astratta disciplina della tariffa integrata ambientale, in base a una presunta sostanziale identità tra questa e la tariffa d’igiene ambientale (ancora per comodità, rispettivamente, tia/2 e tia/1), è il frutto di una forzatura logica del tutto inaccettabile.

La tariffa integrata ambientale, di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, è stata istituita previa soppressione (e, dunque, in conseguente sostituzione) della tariffa d’igiene ambientale. Per incidens, essa non risulta ancora applicabile non essendo stato emanato il previsto regolamento attuativo, di cui ai commi 3 e 6 della disposizione citata. Talchè, in base al successivo comma 10, dello stesso art. 238, fino alla completa attuazione della tariffa integrata (peraltro solo virtuale, essendo codesta a sua volta destinata a cedere il passo, con decorrenza 1.1.2013, all’istituito tributo comunale rifiuti e servizi – c.d. res – di cui al D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, art. 14, conv. in L. 22 dicembre 2011, n. 214), continuano ad applicarsi le discipline regolamentari prima vigenti; e dunque, la disciplina regolamentare della tariffa d’igiene ambientale (tia/1).

D’altronde non risulta – nè è in qualche modo dedotto – che il comune di Capannori abbia, in concreto, e per quanto rileva in causa, provveduto ad attuare la tariffa integrata con proprio autonomo regolamento – in base alla facoltà pur concessa dal D.L. n. 208 del 2008, art. 5, comma 2 quater, conv. con modificazioni in L. n. 13 del 2009, giustappunto per l’eventualità della mancata adozione del ripetuto regolamento ministeriale attuativo entro il 30.6.2009.

Poichè finanche in linea di pura logica formale non è dato comprendere in qual senso possa minimamente sostenersi l’identità tra situazioni in successione tra loro (dovrebbe far parte del comune patrimonio logico-cartesiano che, se A succede a B, A e B non sono la stessa cosa), sembra alla Corte di tutta evidenza che le argomentazioni involgenti l’istituto della tariffa integrata ambientale (tia/2) a nulla rilevano laddove, come nella specie, si discuta della sola tariffa d’igiene ambientale (tia/1).

Il che, del resto, è stato già evidenziato dalla Corte costituzionale nella nota sent. n. 238/2009, a petto della considerazione circa “la rilevata formale diversità delle fonti istitutive delle due suddette tariffe (ancorchè entrambe usualmente denominate, in breve, tia), la successione temporale delle fonti, la parziale diversità della disciplina sostanziale di tali prelievi, il fatto che la tariffa integrata espressamente sostituisce la tariffa di igiene ambientale”.

Siffatti elementi impediscono, in buona sostanza, di ritenere che la questione sollevata in causa sia minimamente influita dall’evoluzione concernente la tariffa integrata ambientale.

7. – Mantenuta nei limiti suoi propri, la questione relativa alla affermata (dalla ricorrente) soggezione della tia/1 all’Iva va risolta in coerenza con la pacifica natura tributaria della medesima, con la mancanza di disposizioni legislative che espressamente assoggettano a Iva le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti e con l’irrilevanza di diverse prassi amministrative (in effetti esistenti in alcuni territori), posto che la natura tributaria della tariffa va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa, e non da dette eventuali distorte prassi.

In tal senso è sufficiente richiamare i principi affermati dalla Corte costituzionale – in sintesi: “non è fondata, in riferimento all’art. 102, comma 2, cost., la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 2, secondo periodo, nella parte in cui dispone che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per lo smaltimento di rifiuti urbani e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (t.i.a.) prevista dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49: la tariffa di igiene ambientale (t.i.a.), infatti, costituisce una mera variante della ta.r.s.u. disciplinata dal D.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni) e conserva la qualifica di tributo propria di quest’ultima” (sent. n. 238/2009 e ord. nn. 300(2009 e 64/2010) -; e infine accolti dalle sezioni unite di questa Corte a mezzo dell’affermazione che “la tariffa di igiene ambientale (t.i.a.), disciplinata dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, costituisce non già una entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della t.a.r.s.u. (disciplinata dal D.P.R. n. 507 del 1993) e conserva la qualifica di tributo, propria di quest’ultima, con la conseguenza che le controversie aventi a oggetto la debenza della t.i.a. hanno natura tributaria e sono da attribuire alla cognizione delle commissioni tributarie (senza che ciò si ponga in contrasto con l’art. 102 Cost., comma 2)” (per tutte sez. un. n. 14903/2010; sez. un. n. 25929/2011).

In base a codesti principi, stante la mancanza – ripetesi di disposizioni legislative suscettibili di esser richiamate a presidio della affermata soggezione a Iva della prestazione del servizio di smaltimento in sè e per sè considerata (disposizione che, oltre tutto, ove esistenti, determinerebbero fondati dubbi di legittimità alla luce della normativa comunitaria – direttiva 2006/112/Ce – che esclude in via generale l’assoggettamento a Iva di diritti, canoni e contributi percepiti da enti pubblici “per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità”), devesi confermare la statuizione di cui all’impugnata sentenza.

Nel senso che gli importi pretesi a titolo di tariffa d’igiene ambientale non sono assoggettabili a Iva.

8. – In conclusione, quindi, va accolto, nei limiti considerati, il primo motivo dell’odierno ricorso e rigettato il secondo.

L’impugnata sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla medesima commissione regionale della Toscana, diversa sezione.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo; rigetta il secondo; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla commissione tributaria regionale della Toscana.

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