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Suprema Corte di Cassazione - Sezione Seconda Penale - Sentenza 12-30 novembre 2009, n. 45836

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 12-30 novembre 2009, n. 45836

Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.

1) Il ricorrente afferma che, in caso di reato commesso mediante consegna, da parte della persona offesa, di un assegno circolare, avendo la persona offesa già corrisposto (con contestuale diminuzione del suo patrimonio) all'istituto emittente il corrispondente valore del denaro, la truffa si consuma nel tempo e nel luogo ove viene materialmente consegnato l'assegno circolare.

Tale rilievo va disatteso.

Anzitutto, nella fattispecie, non si trattava di assegni circolari, ma di assegni di conto corrente posti all'incasso dal prevenuto direttamente in banca. Il delitto di truffa si perfeziona non nel momento in cui il soggetto passivo assume un'obbligazione per effetto degli artifici o raggiri subiti, bensì in quello in cui si verifica l'effettivo conseguimento del bene economico da parte dell'agente e la definitiva perdita di esso da parte del raggirato; pertanto, quando il reato predetto abbia come oggetto immediato il conseguimento di assegni bancari, sia di conto corrente che circolari, il danno non necessariamente si verifica nel momento in cui i titoli vengono posti all'incasso, consolidandosi nel luogo in cui la relativa provvista viene imputata a debito nel relativo conto corrente, in quanto, in tal caso si verifica una lesione concreta e definitiva del patrimonio della persona offesa, inteso come complesso di diritti valutabili in denaro.

E', infatti, possibile, ancorchè l'assegno sia stato posto all'incasso, non esservi contestuale perdita patrimoniale per il soggetto leso, con riferimento al delitto consumato, se, ad esempio, ha tempestivamente bloccato la contabilizzazione di assegni versati sul suo conto.













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La truffa, quindi, non si consuma, con riferimento alla competenza territoriale, nel luogo in cui l'autore del reato versa l'assegno, bancario o circolare, a titolo di pagamento, ma nel luogo in cui avviene la effettiva "deminutio patrimonii" del traente truffato attraverso l'addebito, nel conto corrente della vittima, della somma portata dal titolo di credito da parte della banca trattarla, coincidente col luogo in cui ha sede la banca o la sua filiale, presso cui è stato acceso il conto corrente, come correttamente è stato ritenuto dalla Corte meneghina.

Mentre, infatti, il vantaggio patrimoniale dell'agente, si verifica al momento della riscossione del titolo, la lesione patrimoniale si concretizza solamente a seguito della contabilizzazione al passivo dell'importo portato dal titolo incassato che avviene presso la sede dell'istituto ove il conto è stato aperto.

2) Anche con riferimento al secondo motivo di ricorso, già disatteso dal Tribunale e dalla Corte di merito, relativo alla dedotta qualificazione giuridica della condotta quale appropriazione indebita e non truffa, le doglianze (sono le stesse affrontate esaurientemente dal Giudice di merito) sono infondate. Infatti la Corte di appello ha rigettato tale motivo evidenziando come il prevenuto, nel corso degli anni, abbia usato artifizi e raggiri, facendo credere al M. che gli originali dei contratti erano custoditi dell'Ina presso l'archivio di ****, predisponendo specchietti riassuntivi contenenti fittizi riepiloghi delle somme investite, inducendolo al reinvestimento degli interessi in scadenza.

Il delitto di truffa si differenzia, inoltre, da quello di appropriazione indebita perchè nella truffa l'agente consegue il profitto con artifici o raggiri, mediante i quali induce in errore il soggetto passivo, mentre nell'appropriazione indebita l'agente possiede a qualsiasi titolo la cosa mobile altrui e se ne appropria per procurare a se o ad altri un ingiusto profitto. Nella fattispecie il mezzo ingannevole dei falsi contratti, posto in essere dall'agente assicurativo è utilizzato per indurre il M. al fine di ottenere la consegna degli assegni, avendo gli artifizi e raggiri preceduto la consegna del danaro, ottenuta attraverso l'induzione in errore e non viceversa, avendo già evidenziato la Corte territoriale come, nella fattispecie, non si sia trattato del ritiro di premi di assicurazione effettivamente stipulati, ma di aver fatto falsamente credere alla persona offesa di avere stipulato polizze assicurative, risultate inesistenti, incassando così i relativi finti premi. A fronte di ciò il ricorrente contrappone solo generiche contestazioni.

3) Anche il terzo motivo va disatteso.

La Corte territoriale ha, con motivazione logica e coerente, rilevato che, per la configurazione della continuazione, non è necessario che fin dall'origine siano prefigurati singoli episodi illeciti, nè che sia individuata, con esattezza, la loro cadenza temporale, bensì che essi siano collegabili ontologicamente a un unico progetto originario, com'è avvenuto nel caso di specie ove il soggetto attivo e passivo sono rimasti nel tempo gli stessi, così come sono rimaste identiche le modalità truffaldine, rigettando la richiesta del ricorrente di dichiarare gli episodi ante **** prescritti.

Anche tali doglianze del ricorrente (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell'atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici.

4) L'ultimo motivo di ricorso deve considerarsi assorbito dal rigetto del precedente motivo, essendo stato formulato in forza della prospettata scissione dei periodi di continuazione del reato, esclusa nella fattispecie e non essendo state formulate censure specifiche alla valutazione della Corte territoriale che ha ritenuto che la somma di Euro 39.520 appare, in ogni caso, rilevante in sè, evidenziando anche che il danno subito dalla parte offesa non si limita a tale somma ma deve ricomprendere anche il danno ulteriore e da lucro cessante conseguente alla mancata attivazione delle polizze, rilevando, in ultimo, come le somme sottratte al M. costituivano gli investimenti di tutti i suoi risparmi.

5) Nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese della parte civile, non avendo presentato nota spese, nè avendo richiesto la relativa rifusione nella memoria presentata nel grado di giudizio.

Il giudice non può liquidare di ufficio, in mancanza della domanda dell'interessato, le spese processuali a favore della parte civile in mancanza di alcuna richiesta di rifusione che va presentata in ciascun grado di giudizio, seppur non corredata della relativa nota.

Solo in tale ultimo caso, che non ricorre nella fattispecie, il giudice è tenuto alla liquidazione facendo ricorso alle tariffe professionali vigenti, non comminando l'art. 153 disp. att. c.p.p., del resto, alcuna sanzione di nullità o inammissibilità per l'inosservanza del dovere della parte civile di produrre l'apposita nota, (cfr Sezioni Unite 3.12.1999 n. 20, Fraccari; Sez. 4, 5.5.2005,n. 27931 (dep. 27.7.2005); sez. 5, 10.5.2005, n. 22387 (dep. 13.6.2005).

Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2009.

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