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Suprema Corte di Cassazione - Sezione Lavoro - Sentenza 22 maggio 1999 n. 5000

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza del 22 maggio 1999 n. 5000
Motivi della decizione

Con il primo motivo la difesa del ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 342 c.p.c., con inammissibilità o nullità dell'appello. Sostiene che l'INPS, nel proprio atto di appello, "non ha censurato in alcuna sua parte la sentenza di primo grado, limitandosi a sostenere l'erronea valutazione del certificato di assenza al domicilio redatta dal sanitario". Rileva che dagli atti di causa risultava che "il medico ha dichiarato, come risulta dalla lettera dell'USSL, di non aver suonato il citofono ma bussato alla porta" e che in nessun atto "risulta dichiarato che il medico abbia suonato il campanello".



Da ciò deriverebbe la inammissibilità o nullità dell'appello, essendo questo fondato su una circostanza accertata in causa; e non essendo soddisfatto il requisito della specificità dei motivi di tale mezzo di impugnazione.Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2699 c.c., la difesa del ricorrente sostiene che il referto medico redatto dalla dott.ssa Z non riveste la qualifica di atto pubblico per vizio di forma, essendo sprovvisto di numero ed essendo incerta la data nella quale è stata effettuata la visita.
L'USSL aveva infatti comunicato che la visita si presumeva effettuata il 2 e non il 3 luglio perché la stessa, secondo il medico incaricato del controllo, era inserita fra quelle del 2 luglio.


Avrebbe errato pertanto il Tribunale a fondare sul certificato (quale atto pubblico) la propria decisione, privilegiandolo sulle altre prove, testimoniali e documentali, acquisite dal Pretore.Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2700 c.c., nonché omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, la difesa del ricorrente rileva che il referto del medico di controllo comprova, con fede privilegiata e fino a querela di falso, che il medico si è recato presso l'abitazione del lavoratore; e che da tale circostanza si può, al massimo, dedurre che il medico abbia suonato o bussato senza esito. Ogni altra ipotesi, compresa quella che il lavoratore, pur presente in casa, non abbia udito suonare o bussare, è possibile senza incidere sulle dichiarazioni del pubblico ufficiale. Assume che nel caso di specie il Dossena aveva provato di essere stato presente in casa, mentre risultava documentalmente che il medico non aveva suonato il campanello (che pure esisteva) ma si era limitato a bussare. Il Tribunale ha sbagliato nel dedurre dal referto che il medico si fosse comportato secondo la dovuta diligenza, posto che il referto nulla dice e prova sul punto, mentre sarebbe stato provato che il medico aveva bussato e non suonato il campanello.


Con il quarto motivo, denunciando omessa e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, la difesa del ricorrente lamenta ancora che il Tribunale non ha considerato che il medico non si era comportato con la dovuta diligenza, limitandosi a bussare alla porta e non usando il campanello elettrico; e non ha inoltre valutato che nessuna negligenza poteva imputarsi al lavoratore, essendo stato provato che lo stesso era in casa, nella sala (ambiente molto vicino alla parta di ingresso), in compagnia del sig. Y, e che nessuno dei due aveva inteso bussare.


Se vi è negligenza, questa è del medico di controllo che non ha bussato con sufficiente energia per farsi sentire. Con il quinto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 152 disp. Att. C.p.c., nonché ultrapetizione e vizio di motivazione, la difesa del ricorrente lamenta che il Tribunale ha condannato il sig. X al rimborso delle spese del grado in favore dell'INPS senza che l'Istituto avesse richiesto tale condanna e senza alcuna motivazione sulla sussistenza della manifesta infondatezza e temerarietà della lite, requisiti richiesti dal citato art. 152 per la condanna del lavoratore alle spese nelle controversie aventi ad oggetto prestazioni previdenziali.


Il primo motivo di ricorso - con il quale si lamenta l'assenza di motivi specifici di appello nell'impugnazione proposta davanti al Tribunale - è infondato. L'avere l'INPS sostenuto "l'erronea valutazione del certificato di assenza dal domicilio redatta dal sanitario" costituisce motivo specifico di impugnazione. Che poi la valutazione fosse o meno erronea circostanza che attiene alla fondatezza della censura e non può certo incidere sulla ammissibilità o nullità dell'atto di appello.


Il secondo, terzo e quarto motivo, che si trattano congiuntamente in considerazione della loro interdipendenza, sono anch'essi infondati. Il certificato redatto da un medico convenzionato con l'INPS per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore, ai sensi dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300, è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto od essere avvenuti in sua presenza (cfr., in una fattispecie relativa ai certificati dei medici convenzionati con l'INAM, Cass., 14 gennaio 1987 n. 217). La mancanza del numero non è idonea ad inficiare la validità dell'atto, così come non lo è la dedotta incertezza sulla data di effettuazione della visita, data che il Tribunale ha individuato nel 2 luglio 1993 (cfr. pag. 3 della sentenza) e che lo stesso ricorrente, nella ricostruzione operata nella prima pagina del ricorso per cassazione, avvalora come esatta. Dal certificato risulta, come argomenta la difesa del ricorrente con il terzo motivo, che il medico si è recato presso l'abitazione del lavoratore; avendo attestato di non averlo trovato in casa, si può dedurre che il medico abbia suonato o bussato senza esito.









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Al riguardo va ricordato che l'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre 1983 n. 638, prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore (v. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216).


Nella fattispecie in esame il Tribunale, nel contrasto tra la certificazione del medico, dalla quale si deduce che lo stesso aveva suonato alla porta, e la dedotta testimonianza secondo la quale il lavoratore, insieme ad un amico, si trovava nella sala, molto vicina all'ingresso, e nessuno dei due aveva inteso suonare o bussare alla porta, ha privilegiato le risultanze della certificazione in considerazione del suo carattere di atto pubblico; e, in effetti, la testimonianza invocata dal ricorrente finisce con il negare attendibilità alle dichiarazioni del medico, anziché provare un apprezzabile motivo che abbia impedito di percepire la suonata o bussata di questi.


Quanto alla circostanza (sottolineata con il quarto motivo) che il medico avrebbe "bussato" alla porta e non "suonato" il campanello, omettendo quindi di comportarsi con la dovuta diligenza, rileva la Corte in primo luogo che la dedotta vicinanza della sala alla porta di ingresso avrebbe dovuto comunque consentire l'avvertimento dei colpi sulla porta. Ma si deva nche rilevare che il verbo "bussare", sorto - nell'epoca in cui non esistevano sistemi elettrico - acustici di chiamata - con il significato di "picchiare ad una porta per farsi aprire", è usato attualmente, nell'uso corrente, come sinonimo di "suonare", attesa la identica finalità delle due azioni. L'espressione, peraltro, a quanto risulta dalla sentenza impugnata (pag. 4), non è contenuta nel certificato del medico ma nella lettera proveniente dall'amministratore straordinario dell'USSL n. 56; e lo stesso Tribunale rileva che nella citata lettera - il cui testo, contravvenendo al noto principio della autosufficienza del ricorso per cassazione, non è riportato in questo atto - "... non si dice che il medico stesso non abbia suonato il campanello ma solo che lo stesso ha bussato insistentemente alla porta di abitazione...".

Il quinto motivo è invece fondato nei limiti appresso precisati. Non vi è stata ultrapetizione, atteso che la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese in favore dell'altra parte, ai sensi dell'art. 91 del codice di procedura civile, costituisce un effetto normale della soccombenza e non abbisogna di espressa richiesta della parte vittoriosa. Vi è stata, però, violazione dell'art. 152 disp. Att. C.p.c., norma che, abrogata dall'art. 4, comma 2, del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, conv. in legge 14 novembre 1992 n. 438, è stata reintrodotta nell'ordinamento a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 134 del 13 aprile 1994, che ha dichiarato la illegittimità della norma abrogatrice.


Ai sensi dell'art. 152 citato la condanna alle spese del lavoratore soccombente nei giudizi per ottenere prestazioni previdenziali è subordinata alla manifestata infondatezza e temerarietà della domanda.
La sentenza impugnata ha invece condannato il lavoratore alle spese in favore dell'INPS in forza del solo principio della soccombenza, senza valutare la sussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 152 citato.
Per questa parte la sentenza va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con la constatazione che la domanda, pur manifestamente infondata, non è temeraria, donde l'esonero del lavoratore soccombente dall'obbligo di rifusione delle spese all'INPS. Nessun provvedimento va preso in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, non avendo l'INPS svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.


La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso; accoglie il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara il ricorrente non tenuto al pagamento delle spese del giudizio di appello nei confronti della controparte; nulla per le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 26 gennaio 1999.

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